In questi giorni di lavoro, in cui resto lontana da casa per tantissimo tempo per rientrarvi solo nei week-end, sento la mancanza di tante cose.
Ma una presenza in particolare mi manca: quella incombente del campanile, che campeggia a 200 metri da casa ingombrando le ore con la sua ombra e con i rintocchi corposi e ripetuti ogni 30 minuti.
Quel suono incoraggiante è come le vibrazioni che si percepiscono nel ventre della madre, quando attraverso il liquido i rumori e le voci arrivano fatti d’acqua e forse non li ascolti consciamente ma ti lasciano qualcosa, una flebile traccia, quello che inizi ad essere e poi diventerai.
Quel muro tante volte guardato pur senza puntare l’attenzione, quel muro che non è campanilismo ma è terra e pietra del tuo luogo, pietra di cui sei fatto perchè è terra di cui è fatto ciò che mangi ciò che respiri ciò che senti nelle vibrazioni dell’aria degli oggetti riflettuta ad eco interminabile dalle rocce, dalle piante da ogni spigolo scomodo o dolce…
Quel bronzo lavorato quattrocent’anni or sono da qualche tuo antenato, che ha ancora sopra le sue impronte, il suo sudore, anche se non lo riconosci più…
Quel riflesso che a volte abbaglia nel sole perchè perdi la strada e non conosci la via; quel richiamo tramandato di generazione in generazione, da avi che non si ponevano tante domande nè filosofie nè amare considerazioni ma che sapevano che la loro vita orbitava lì, sotto quel campanile, sotto quella croce…
Quella croce che troppo spesso ti consenti il lusso di non voler abbracciare, eppure è lassù appesa che aspetta e che ti chiama… don don don don… con i rintocchi un po’ cupi un po’ sordi un po’ ciechi del campanile…
Quanto mi manca questo campanile, quanto mi manca questa disarmante fede… come un bambino che cerca la sua casa.
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